LA CORTE DI APPELLO

    Ha  emesso  la seguente ordinanza nel giudizio d'appello a carico
di:  Antonio  Piu, nato a Sassari il 1° luglio 1927, ivi residente in
via  E. Caruso,  38,  imputato  del  delitto di cui all'art. 595 c.p.
perche',  comunicando  con  piu'  persone, con una missiva inviata al
consiglio  dell'ordine  degli avvocati di Sassari e alla sede di Roma
dell'associazione  marinai d'Italia, offendeva la reputazione di Moro
Antonio  Giuseppe,  accusandolo, fra le altre cose, testualmente, «di
ledere,  con  il  suo  comportamento indegno, l'immagine della figura
professionale  degli  avvocati di avere trasformato e successivamente
fatto  fallire  l'A.N.M.I.,  congiuntamente  a  due soci amici in una
bettola  di  avvinazzati,  di  avere,  sfruttando  la  sua  carica di
consigliere nazionale dell'A.N.M.I., adoperato artifizi e raggiri per
il  raggiungimento del suo deplorevole scopo di sciogliere l'A.N.M.I.
stessa».
        In Sassari il 24 gennaio 2000.
    Considerato  che,  con  sentenza n. 382/2003 del 17 marzo 2003 il
tribunale di Sassari ha assolto il sig. Piu dal reato a lui ascritto,
e  rilevato  che  contro questa decisione hanno interposto appello il
p.g.,  che ha chiesto l'affermazione di responsabilita' dell'imputato
e la sua condanna a pena di giustizia, e la p.c., che ha sollecitato,
previa affermazione di responsabilita' del prevenuto, la sua condanna
al risarcimento del danno;
    Rilevato,  altresi',  che  il  p.g. ha osservato, sia con memoria
scritta  sia  con  deduzioni  orali  in udienza, che, a seguito della
entrata  in vigore della legge 20 febbraio 2006 n. 46, applicabile, a
norma  dell'art. 10  di  essa,  anche  ai  procedimenti  in corso, il
proposto  gravame dovrebbe essere, con ordinanza inoppugnabile giusta
l'art. 10.2  della  legge  citata,  dichiarato  inammissibile  avendo
l'art. 1  della  medesima  legge  reso  inappellabili  le sentenze di
assoluzione,  e  che  tuttavia, essendo ravvisabile contrasto fra gli
artt. 1,  2  e  10  della  legge n. 46/2006 e gli artt. 3 e 111 della
Costituzione,  la  corte  dovrebbe  rimettere  gli  atti  alla  Corte
costituzionale;
    Sentiti  i  difensori  della parte civile e dell'imputato, che si
rimettono,

                            O s s e r v a

    I  profili  di  incostituzionalita'  proposti  dal  p.g. sono non
manifestamente infondati: l'art. 111 della Costituzione garantisce il
principio della parita' delle parti nel processo, e questo principio,
nella  previsione  costituzionale,  non  soffre di eccezioni di sorta
(come  invece  puo'  avvenire  per  altri principi, come quello della
formazione della prova in contraddittorio pure stabilito dal medesimo
articolo 111).  L'esclusione  della  possibilita'  che  il p.m. possa
gravarsi  contro  le  sentenze di proscioglimento con lo stesso mezzo
riconosciuto  all'imputato  avverso  le sentenze di condanna comporta
l'introduzione   nel  sistema  delle  impugnazioni  di  una  evidente
irragionevole   disparita'   di  trattamento  che  contrasta  con  il
richiamato  principio della parita' delle parti nello svolgimento del
processo.
    Giustamente  ha  poi  osservato  il p.g. che questo enunciato non
confligge   con   le   ripetute   pronunce   negative   della   corte
costituzionale  chiamata  ad  esprimersi  sulle limitazioni al potere
d'appello  del  p.m.  stabilite  dall'art. 443.3  c.p.p.,  essendo le
disparita'   derivanti   da   questa   disposizione   ragionevolmente
giustificabili  alla  luce del risultato perseguito con il ricorso al
rito  abbreviato  e  delle  peculiarita'  di  questo. Il risultato e'
quello  della  rapida  definizione  dei  processi  penali  conseguita
attraverso  la  decisione  del processo solo sulla base del materiale
probatorio raccolto dalla parte pubblica fuori del contraddittorio, e
pertanto  con  una  correlativa rinuncia dell'imputato ad intervenire
nel  delicato  momento  della  formazione  della  prova, in vista del
miglior   trattamento  sanzionatorio  a  lui  riservato  in  caso  di
affermazione di responsabilita'. E tuttavia, se in un quadro siffatto
e'  parso  ragionevole  limitare la facolta' di impugnazione del p.m.
quanto  alle  sentenze  di  condanna  (e  pertanto  in relazione alla
quantificazione della pena), altrettanto non pare proprio possa dirsi
in  relazione alle sentenze di assoluzione, pur pronunciate a seguito
di  rito  abbreviato,  stante  il  perdurante  interesse  della parte
pubblica    all'accertamento    della   verita'   (e   quindi   della
responsabilita'  dell'imputato  che  dall'acclaramento  della verita'
possa  risultare),  come d'altro canto dimostra il fatto che e' stata
conservata  al  p.m.  la facolta' di appellarsi contro le sentenze di
condanna che modifichino il titolo del reato.
    A  proposito  del  generale interesse del p.m. a proporre appello
contro  le  sentenza  di  proscioglimento conserva piena validita' il
richiamo contenuto nel messaggio del Presidente della Repubblica alle
Camere  la'  dove  si osserva che «la soppressione dell'appello delle
sentenze  di  proscioglimento... fa si' che la stessa posizione delle
parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparita' che
supera  quella  compatibile  con  la diversita' delle funzioni svolte
dalle  pari  stesse  nel  processo. Le asimmetrie tra accusa e difesa
costituzionalmente  compatibli  non  devono  mai travalicare i limiti
fissati dal secondo comma dell'art. 111 della Costituzione».
    Degne  di piena approvazione appaiono poi le notazioni svolte dal
p.g.  in risposta all'obbiezioni che potrebbero farsi alla sua tesi e
secondo  le  quali  la soppressione della facolta' d'appello del p.m.
contro  le  sentenze  di  proscioglimento risponderebbe a esigenze di
celerita'  del  processo,  e  sarebbe per altro verso coerente con la
presunzioni di innocenza dell'imputato o con il precetto per il quale
la colpevolezza deve esser dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio.
    Quanto   alla  prima  di  tali  osservazioni  giustamente  si  e'
ricordato  che  le  esigenze  di  celerita'  non  hanno  impedito  la
conservazione  della facolta' di cui all'art. 443.3 c.p.p., e che, al
contrario,  saranno  proprio  le  esigenze  di  celerita'  ad  essere
sacrificate   quando,  nel  caso  di  accoglimento  del  ricorso  per
cassazione  proposto  dal  p.m.  contro  la  sentenza assolutoria, il
processo   ritornera'   in  primo  grado  con  la  prospettiva  della
celebrazione  (anche)  del  giudizio  d'appello  in  caso di condanna
dell'imputato.  Il  principio di non colpevolezza implica soltanto il
fatto  che  le conseguenze pratiche della condanna possano discendere
solo  dalla sentenza definitiva, e nessuna conseguenza puo' trarsi da
esso circa l'iter per il quale si debba pervenire al giudicato.
    Quello  per  il  quale la colpevolezza puo' essere affermata solo
quando  sia  provata oltre ogni ragionevole dubbio sembra, invece, in
questo  caso,  un  principio  di  lettura  equivoca,  posto che se si
sostiene  la  inappellabilita' della sentenza con la quale un giudice
abbia pronunciato assoluzione poiche' l'eventuale successiva condanna
non  potrebbe  essere  pronunciata  fuor  di ogni ragionevole dubbio,
potrebbe  altrettanto  legittimamente sostenersi che sarebbe del pari
inutile un giudizio d'appello contro una sentenza di condanna che, ad
esito  di un processo celebrato in condizioni di parita' delle parti,
sarebbe  pronunciata  sulla  scorta  di  prove  che dimostrino con la
stessa sicurezza la colpevolezza.
    Che  poi  l'esclusione  della  appellabilita'  delle  sentenze di
proscioglimento   da   parte   della  accusa  pubblica  sia  coerente
all'esplicazione  dei  diritti  della  difesa  e'  stato  giustamente
contestato  dal  p.g.  osservandosi  che  insopprimibile funzione del
processo  penale  e'  quello  dell'accertamento della verita', e tale
prospettiva deve essere perseguita nel rispetto dei, piu' che giusti,
diritti  della difesa da far valere tuttavia nell'ambito del processo
e non nel senso che il confronto fra le tesi debba essere evitato (in
altri  termini  deve  potersi esercitare la difesa nel processo e non
gia'  dal  processo).  Nessuno  dubita  che  nel  giudizio  d'appello
l'imputato  debba  poi godere del pieno dispiegamento dei diritti che
la  legge  giustamente  gli  riconosce: ma non si vede in che cosa la
celebrazione  del  secondo  grado del giudizio di merito, sia pure ad
istanza  del  p.m., possa compromettere il diritto di difesa (diverso
sarebbe  se  ci  si  appellasse al principio del favor rei, che pero'
vale  nei  soli casi in cui la legge faccia ad esso riferimento e non
risulta   essere   stato   ricompreso   fra  quelli  garantiti  dalla
Costituzione).
    A  tutte le notazioni svolte dal p.g., che questa corte condivide
e  fa  proprie,  puo' aggiungersi che il contrasto delle disposizioni
denunciate   rispetto   all'art. 111   (ed  anche,  a  questo  punto,
all'art. 3)  della  Costituzione apparira' ancor piu' evidente quando
si  osservi che nella stesura definitiva della legge 20 febbraio 2006
n. 46  alla  parte  civile  e'  stato  invece  conservato  il diritto
d'appello  avverso  le  sentenze  di  assoluzione  (la  genesi  della
locuzione   del   secondo   periodo   dell'art. 576   c.p.p.   alinea
nell'attuale  formulazione persuade che l'impugnazione ivi menzionata
consista  nell'appello).  Si  deve constatare pertanto che alla parte
pubblica,   portatrice  degli  interessi  rilevantissimi  su  cui  si
tornera'  tra breve, e' stato del tutto ingiustificatamente riservato
un  potere  di  impugnazione  piu'  ridotto  che alle parti private e
questo  dato,  indubitabile,  non  puo'  che far risaltare in maniera
ancor  piu'  evidente  il  vulnus subito, per effetto delle norme che
vengono  sottoposte  al  giudice  delle  leggi,  dal  principio della
parita' delle parti.
    Oltre   a   tutto   quanto   sopra   enunciato,   partendo  dalla
constatazione  che gli interessi tutelati dal p.m. sono, in uno Stato
di  diritto,  apprezzabili  quanto quelli delle altre parti, compreso
l'imputato  (ed  in  realta', per quanto le ultime riforme in materia
processuale  abbiano  avuto di mira soprattutto il riequilibrio della
posizione  dell'imputato rispetto a quella del p.m., mai l'importanza
degli  interessi  tutelati  attraverso  l'azione  di questo era stata
reputata  sottovalente  rispetto a quella degli interessi delle altre
parti),  puo'  ancora  osservarsi  che sottrarre al p.m. il potere di
appellarsi  contro  le  sentenze  di assoluzione o di proscioglimento
significa  rendere piu' difficoltosa l'attuazione della ricerca della
verita'   e,   quindi   dell'istanza   di   giustizia  propria  della
collettivita',  istanza che e' addirittura pregiuridica, posto che su
di  essa  si  basa  qualsiasi civile convivenza nella quale si voglia
evitare  che  i consociati siano tentati di ricorrere a forme private
di giustizia.
    Di  questo  primario interesse della collettivita' e' espressione
la  previsione  dell'art. 112  della  costituzione  e, in definitiva,
anche  quella  circa  l'emenda del condannato sancita dal comma terzo
dell'art. 27  della  stessa costituzione: dalla lettura coordinata di
queste  due norme si ricava che l'ufficio del p.m. (parte pubblica, e
quindi  tenuta  al  rispetto  di  comportamenti  ispirati  a  massima
correttezza  e moralita', oltre che onerata anche della ricerca degli
elementi favorevoli all'imputato) non e' quello di ottuso persecutore
degli  incolpati,  ma  di soggetto che persegue il compito, della cui
primaria  importanza  si e' detto, di far si' che i soggetti devianti
vengano  recuperati ad una convivenza civile e ordinata. E menomare i
mezzi  attraverso  i  quali  l'azione  del  p.m.,  nel  rispetto  del
principio  di  parita'  delle  parti,  si deve esplicare significa in
definitiva  legiferare  in  contrasto,  anche,  con le due previsioni
costituzionali ora richiamate.
    La  corte,  riconosciuta  pertanto  la non manifesta infondatezza
della  questione  di legittimita' costituzionale sollevata dal p.g. e
ritenuto  di  dovere  sollevare  d'ufficio  l'ulteriore  questione di
legittimita'   costituzionale   sopra   illustrata,  riconosciuta  la
impossibilita'  di  addivenire alla decisione del processo sottoposto
al  suo  giudizio  indipendentemente  dalla risoluzione delle cennate
questioni  (l'applicazione delle norme denunciate impedirebbe infatti
la  definizione  del  processo  con  il  possibile ribaltamento della
decisione  di  primo  grado  e la condanna dell'imputato), dispone la
trasmissione  degli  atti  alla  corte  costituzionale sospendendo il
giudizio in corso.